Zannier: «Manca solidarietà tra paesi»
Parla il segretario generale dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa
Lamberto Zannier parla di «mancanza di solidarietà» tra paesi nella gestione dei flussi migratori in Europa e sottolinea l’importanza di un approccio multilaterale per affrontare la situazione. «Altrimenti, nelle pieghe dell’assenza di cooperazione, i trafficanti riusciranno sempre a prosperare». Una questione che ha a che fare anche con la sicurezza dei cittadini, visto che «ci sono prove documentate di infiltrazioni da parte di terroristi e criminali». In una lunga intervista esclusiva* concessa a Osservatorio Diritti, il segretario generale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), il cui secondo e ultimo mandato scadrà a metà 2017, apre al riconoscimento dello status di rifugiato ai migranti ambientali, sottolinea l’importanza di ripensare la cooperazione allo sviluppo e di puntare su processi di integrazione, mentre si rivela piuttosto critico sull’accordo fatto dalla Ue con la Turchia.
Pensa che i Paesi europei stiano riuscendo a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo?
Nonostante tutte le critiche, direi che non stiamo andando troppo male, ma ci sono ancora dei problemi. Ci sono dei problemi prima di tutto nei campi di prima accoglienza, in Italia, in Grecia, in altri paesi. Le procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato sono spesso troppo lunghe, quindi bisognerebbe accelerare, chiarire qual è lo status di queste persone, cercare di non trattenerle per tempi eccessivi nei campi.
C’è un problema, ovviamente, di mancanza di solidarietà, per cui alcuni paesi si trovano ad avere un peso eccessivo e fanno fatica quindi a mettere in opera anche attività di assistenza adeguate a garantire i diritti dei migranti. D’altra parte, proprio a causa di questa insufficiente solidarietà, devo dire che gli sforzi di quei paesi che si trovano ad accollarsi oneri aggiuntivi vanno anche apprezzati. Mi pare di vedere comunque un grosso sforzo. E questo lo avverto anche in termini di impegni nel contesto delle attività dell’organizzazione, dove vedo una forte prioritarizzazione delle attività umanitarie rispetto ad altre. Quindi c’è attenzione, c’è uno sforzo, ma ovviamente i problemi non si risolvono così facilmente.
Cosa pensa dell’accordo tra Unione europea e Turchia sui richiedenti asilo siriani?
Non è un accordo ideale. Il problema della presenza di grossi numeri di rifugiati in Turchia lo conoscevamo da tempo ed è stato ignorato e questa purtroppo è stata una mancanza. Questo accordo è stata un po’ una pezza, una toppa messa sul buco all’ultimo minuto, quindi non è ideale. È un accordo negoziato dall’Unione europea in condizioni non ottimali, ovviamente.
Qualcuno sottolinea l’importanza dell’aiuto ai paesi africani direttamente in Africa per diminuire l’emigrazione all’origine, altri puntano il dito sulla mancanza di politiche del lavoro davvero comunitarie che permettano di inserire i migranti da questo punto di vista. Quali strategie dovrebbero essere messe in atto?
Bisogna operare su diversi fronti. A mio giudizio è illusorio pensare che i migranti che vengono qui possano essere rimandati tutti indietro. Quindi ci devono essere, anche se sono illegali, delle politiche che in ogni caso ne facilitino l’integrazione. Però è anche vero che non si può continuare a ricevere flussi rilevanti di migranti, soprattutto migranti illegali, a tempo indefinito, indeterminato, quindi bisogna affrontare all’origine i problemi e le fonti dell’emigrazione. A breve termine ci possono essere anche degli accordi tipo quello fatto con la Turchia, ma non credo che siano sostenibili.
Quello che bisogna fare poi è ripensare veramente la cooperazione allo sviluppo. E bisogna anche intervenire in maniera più decisa in appoggio a paesi che hanno grosse crisi interne: basti pensare a Boko Haram e alla Nigeria. Non possiamo sottovalutare l’impatto che questa situazione ha sulle popolazioni e quindi l’esodo che può provocare.
Poi occorrono delle coalizioni più forti anche per combattere i trafficanti. Il traffico di migranti si è rivelato estremamente lucrativo e quindi ci vuole cooperazione, per esempio cooperazione tra intelligence, che è molto difficile ma che è indispensabile in questo momento. Ci troviamo davanti a fenomeni internazionali che coinvolgono un ampio numero di paesi che si devono coalizzare, altrimenti nelle pieghe dell’assenza di cooperazione i trafficanti riusciranno sempre a prosperare. Queste sono alcune delle politiche che saranno necessarie a lungo termine. E vedo poco progresso in questa direzione.
In che senso “poco progresso”?
La cooperazione allo sviluppo, per esempio, rimane molto bilaterale, molto finalizzata a priorità nazionali. Occorre ripensarla anche in funzione dei flussi migratori, proprio per l’impatto che questa ha e perché l’origine dei flussi migratori è un indicatore del problema che va affrontato anche attraverso la cooperazione.
Ha accennato alla tratta di esseri umani. Come si fa a combatterla?
Il fenomeno della tratta è stato sottovalutato per molto tempo e adesso abbiamo un servizio che è molto sviluppato. Abbiamo attivato l’iniziativa Alliance against trafficking in human beings e quindi abbiamo tutta una serie di partner che si occupano di questo. Per combattere la tratta è necessario avere una serie di partner molto diversi: bisogna lavorare con la società civile, con le istituzioni che operano nel campo della sicurezza – come guardia di frontiera, polizia, eccetera – e con il settore umanitario, con organizzazioni che assistono i migranti e i rifugiati e quindi anche quelli soggetti a traffici e schiavitù.
Chi sono le principali vittime di questi traffici?
Abbiamo identificato le categorie vulnerabili e in Europa, per esempio, c’è un grosso problema di minori di cui non si ha traccia. Si parla di migliaia di minori: alcuni possono essere semplicemente sfuggiti ai controlli, ma alcuni possono essere trafficati, quindi occorrerà uno sforzo sostenuto per cercare di identificare, di ritrovare dove sono andati tutti questi minori non accompagnati. E poi ci sono le donne, spesso sottoposte a traffico. In alcuni casi abbiamo anche evidenza di traffici anche all’interno dei campi di profughi. Quindi questo è un problema che va seguito da vicino, preso molto seriamente, combattuto.
Mi può fare un esempio di azione concreta possibile nel contrasto al traffico di esseri umani?
Questo è uno dei settori dove vorrei sviluppare la collaborazione internazionale attraverso l’intelligence finanziaria. Lavorare sui flussi finanziari, per identificare attraverso i flussi le attività criminali che possono essere legate al traffico di essere umani. Occorre mettere in piedi degli strumenti nuovi, moderni, per contrastare in maniera efficace questo crimine che sta diventando diffuso in maniera capillare all’interno di questi importanti flussi di rifugiati.
Pensa che insieme ai richiedenti asilo stiano entrando in Europa anche criminali che possono mettere a rischio la sicurezza dei cittadini?
Ci sono prove documentate di infiltrazioni da parte di terroristi o di criminali all’interno dei flussi migratori. Quindi il rischio è quello che queste infiltrazioni colorino negativamente tutto il movimento migratorio. Quello che va fatto è combattere questo rischio in maniera molto seria, per difendere i rifugiati stessi e per evitare che vengano visti tutti come un potenziale problema di sicurezza.
Come si può contrastare questo pericolo?
Le politiche da mettere in atto per scongiurare questo pericolo sono politiche a tutto campo, che devono coinvolgere tutti gli attori internazionali, non possono essere politiche solo nazionali. Anche in questo caso, quindi, occorre collaborazione tra le polizie e i servizi di intelligence di tutto il mondo. Devono esserci migliori addestramenti delle guardie di frontiera, che sono responsabilità nazionali ma con forti raccordi internazionali, per esempio sul fronte dei passaporti falsi.
Che cosa pensa dell’idea di concedere lo status di rifugiato ai cosiddetti “migranti ambientali”? Spesso sono vittime delle conseguenze dei cambiamenti climatici, ma sono ancora privi di qualunque forma di protezione internazionale.
Non c’è una policy Osce su questo punto, ma personalmente sono interamente d’accordo. Purtroppo c’è una sottovalutazione dell’impatto del fenomeno ambientale sulle migrazioni e sui flussi dei rifugiati. Credo che bisognerebbe adottare – e so che ci sono anche – proposte di convenzioni che stanno venendo elaborate in questo momento. Per questo credo che sarebbe opportuno riconoscere l’esistenza di questo problema e accordare protezione anche ai rifugiati climatici.
Il ministro degli esteri della Giordania, per esempio, mi ha detto che l’inizio dei flussi di rifugiati verso la Giordania dalla Siria era determinato dalla desertificazione e da problemi di mancanza di acqua, cui poi si è aggiunto il conflitto.
E qual è la sua opinione riguardo ai “migranti economici”, quelli che si spostano perché non hanno le condizioni minime per sostentarsi nel proprio Paese: dovrebbe essere garantita protezione anche a loro?
Il problema dei migranti economici è diverso, perché la migrazione economica dovrebbe avvenire in accordo tra il Paese di migrazione e quello che riceve, quindi dovrebbe riflettere anche elementi di attuazione di accordi o di intese bilaterali. Molto spesso il migrante economico finisce con il diventare un migrante illegale. E in alcuni casi cerca anche di documentare la difficoltà della situazione da cui proviene per ottenere lo status di rifugiato. Quindi c’è un problema di definizione prima di tutto.
E poi c’è un vuoto di regolamentazione. Probabilmente nel tempo bisognerà riconoscere che i numeri sono tali per cui una migliore regolamentazione di questo settore potrebbe essere necessaria.
Un’ultima domanda: che cosa sta facendo l’Osce per contribuire alla gestione dei flussi migratori verso l’Europa?
All’interno dell’Osce ci sono due o tre angolature per questo problema. La prima si riferisce all’osservazione e alla gestione dei flussi in quanto tali. Abbiamo un rappresentante che si occupa di traffici di esseri umani, abbiamo un concetto di gestione delle frontiere. E poi abbiamo un accordo con Interpol per la collaborazione e quindi lavoriamo con i servizi di frontiera dei vari paesi, soprattutto dei paesi non membri dell’Ue, per rafforzarne la capacità di gestione dei flussi. Direi che la lotta contro il traffico e il contrabbando degli esseri umani è fondamentale ed è un settore in cui l’Osce opera in primo piano e questo rimarrà senz’altro una delle priorità.
La seconda angolatura, invece, qual è?
Il secondo elemento è l’aspetto umanitario. Abbiamo delle istituzioni che si occupano di problemi, diritti dei migranti, dei rifugiati. Abbiamo anche un coordinatore economico, che si occupa della migrazione economica, della migrazione legale, quindi cerchiamo di guardare questi aspetti, come l’impatto della migrazione sulla nostra società. E quindi l’arrivo, l’inserimento, i rischi dell’emarginazione che possono portare anche a estremismo violento e dare origine al terrorismo. Quindi se vogliamo tenere distinti – come è importante fare – il problema della migrazione da quello della deriva estremista, bisogna prendere questo secondo problema molto seriamente, occuparsene di modo da toglierlo dal tavolo.
In cosa consiste il terzo aspetto del vostro intervento?
Il terzo punto della discussione è quello del lungo termine. Cercare di capire quali sono le cause profonde della migrazione, che sono ovviamente i conflitti, ma anche i differenziali economici e la povertà, i cambiamenti climatici. Tutta una serie di questioni che vanno affrontate in termini di politiche di lungo termine, di agenda di sviluppo sostenibile, che vogliamo porre con forza anche sull’agenda della nostra organizzazione.
A parte l’Osce, quali altri attori dovrebbero occuparsi della situazione dei migranti oggi e in che modo?
Quello dell’immigrazione è un tema a tutto campo. Secondo me è sbagliato guardare solo all’aspetto umanitario, che ovviamente è un aspetto fondamentale, è importantissimo e deve essere il punto di partenza, ma non ci si può fermare lì. Non si può affrontare l’emergenza dell’emigrazione solo in chiave umanitaria ed è per questo che il complesso degli attori con cui bisogna interagire è molto ampio.
Ovviamente dobbiamo coinvolgere l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e l’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che sono in prima linea. Ma poi dobbiamo pensare anche a politiche di cooperazione allo sviluppo, e quindi operare con i paesi e cercare anche di armonizzare politiche per affrontare i problemi dei paesi d’origine.
Purtroppo oggi la comunità internazionale è polarizzata, è molto divisa, e questo rende più difficile la composizione dei conflitti, che quindi provocano i numeri più massicci di esodi. E poi ci dovrebbero essere le politiche di cambiamento climatico eccetera.
Quindi c’è tutta una serie di attori da coinvolgere per ognuno dei temi che affrontiamo ed è per questo che occorre un piano di azione estremamente articolato.
La soluzione, dunque, crede che stia in una strategia multilaterale?
Direi che la soluzione deve essere basata sul multilateralismo. Le risposte bilaterali sono risposte solo parziali. Le dimensioni dei problemi sono tali che nessun paese, anche i paesi più grossi bilateralmente, può riuscire a fare la differenza da solo. Quindi occorrono grandi coalizioni, occorre un forte impegno nel multilaterale.
*L’intervista è stata realizzata a fine settembre 2016. Pubblichiamo qui, per la prima volta, i passaggi più significativi