Multinazionali bocciate in diritti umani
Pubblicata la classifica del Corporate human rights benchmark che valuta 98 aziende
Le grandi multinazionali lasciano a desiderare quanto a rispetto dei diritti umani. Per lo meno quelle considerate dal Corporate human rights benchmark, una classifica che comprende 98 giganti dei settori agro-alimentare, estrattivo e dell’abbigliamento attivi in ogni parte del mondo. Solo tre società, infatti, sono riuscite ad aggiudicarsi tra il 60 e il 69% dei punti a disposizione: la BHP Billiton, il gruppo Marks & Spencer e la Rio Tinto.
Sono ben 14, invece, quelle che non ce l’hanno fatta neppure a raggiungere il 20%: Petrobras, Under Armour, Fast Retailing, Wal-Mart Stores, McDonald’s, Coal India, China Petroleum & Chemical, Ross Stores, Kohl’s, Oil & Natural Gas Corporation, Yum! Brands, Grupo Mexico, Macy’s, Costco Wholesale. L’unica italiana considerata, l’Eni, si è piazzata appena sopra, nella fascia 20-29% che raccoglie in tutto 48 aziende.
A mettere in piedi questo studio è stata la società non profit Corporate human rights benchmark limited, fortemente voluta da otto grandi istituzioni. A partire dal Business and human rights resource centre, un autorevole centro indipendente che accompagna le politiche e le performance in materia di diritti umani di oltre 6 mila compagnie in più di 180 Paesi, o il think tank Institute for human rights and business. E la lista prosegue con rappresenti di peso della finanza socialmente responsabile: APG Asset Management, Aviva Investors, l’associazione olandese di investitori per uno sviluppo sostenibile (Vbdo), l’americana Calvert Research and Management, la fondazione Eiris e la Nordea Wealth Management.
Insomma, la spinta a mettere sotto osservazione le grandi compagnie è partita dall’alto e mira a fare pressione affinché le cose possano cambiare. Tanto che lo studio si conclude con una “call to action”, una chiamata all’azione rivolta in maniera specifica a quattro gruppi: aziende; investitori; governi; società civile, lavoratori, comunità, media e consumatori. O arriva una pressione da tutti i soggetti coinvolti, oppure la situazione non migliorerà, sembra essere la filosofia di fondo di questo articolato documento.
La classifica finale è frutto di un lavoro durato due anni che ha giudicato le aziende su cento indicatori che misurano se e quanto siano rispettati i principi guida dell’Onu relativi a business e diritti umani e altri standard internazionali in materia. Si tratta del primo studio di questo tipo e a lungo andare la Corporate human rights benchmark limited ha dichiarato di voler estendere il proprio focus alle maggiori 500 società quotate del mondo. Le 98 considerate finora sono state scelte sulla base della capitalizzazione di mercato, dei ricavi e cercando di garantire una presenza geografica e per settori bilanciata.
SEI TEMI
Le società sono state giudicate sulla base di sei temi, ognuno con un peso differente nella valutazione finale. Un primo 10% ha riguardato gli impegni politici legati ai diritti umani e la loro gestione da parte dei vertici aziendali.
La fetta più grossa, pari al 25% del totale, è stata assegnata: da un lato, alla verifica dell’integrazione degli impegni dichiarati nella cultura della compagnia e nei suoi sistemi di gestione quotidiana; dall’altro, a specifiche modalità messe in piedi dall’azienda per assicurare che siano realizzati processi di controllo (di due diligence) per stabilire i rischi ai diritti umani posti in essere con la propria attività, per integrare e agire sulla base di questi dati e per prevenire e mitigare gli impatti.
Il terzo tema, che pesa per il 15%, si occupa invece di valutare se la compagnia in questione stia provvedendo ad affrontare gli impatti negativi causati. In questo caso si stabilisce fino a che punto siano stati previsti processi in grado di affrontare subito eventuali situazioni critiche e trovare rimedi appropriati.
Lo studio ritiene piuttosto importante le pratiche specifiche di ogni settore industriale utilizzate per prevenire impatti negativi sui diritti umani particolarmente a rischio nell’area economica in cui opera l’azienda. Questo tema, infatti, pesa per il 20 per cento.
Un altro 20% è poi riservato al giudizio relativo alla risposta data dalle società in occasione di gravi accuse di responsabilità mosse nei suoi confronti. In questo caso i ricercatori non si sono occupati della fondatezza delle accuse, ma solo di come l’azienda ha reagito.
Il sesto e ultimo tema, infine, è quello della trasparenza, ossia di quanto le compagnie rendano pubbliche tutte le informazioni rilevanti in materia di diritti umani, quando richieste, ai maggiori organismi del settore (Global reporting initiative, Sustainability accounting standards board, UN Guiding principles reporting framework).
LA CLASSIFICA PER SETTORI
Nelle infografiche qui sotto si può leggere la classifica completa azienda per azienda e suddivisa per aree di attività economica. Nel complesso, il risultato medio raggiunto dalle 98 compagnie analizzate è pari ad appena il 28,7 per cento.
Nel settore agro-alimentare il punteggio medio è stato del 28,8%, con picchi positivi su trasparenza (2,8 su 10) e politiche (2,3 su 10), e deficit gravi nelle pratiche per il rispetto dei diritti umani (1,6 su 20).
L’abbigliamento si è fermato al 27,3%, peggio di tutti gli altri settori, anche se non è andato male in trasparenza (3,1 su 10).
L’attività estrattiva, infine, è quella che è andata leggermente meglio, mettendo a segno il 29,4% dei punti. In fatto di due diligence e di processi per concretizzare gli impegni presi in materia di diritti umani, però, la media dei voti è davvero scarsa (3,3 su 25).